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POLICE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 marzo 1986
 
di Maurice Pialat, con Gérard Depardieu, Sophie Marceau, Richard Anconina, Sandrine Bonnaire (Francia, 1985)
 
Succede talvolta che un regista rifiuti di commentare un film, di spiegarne i significati: tutto sta nelle immagini, non vi è nulla da aggiungere, se qualcosa non si capisce, o è colpa mia, che non sono riuscito ad esprimermi, o è colpa vostra, che non avete voluto, o potuto comprendere.

Dei film come POLICE provocano una reazione del genere ad un genere di personaggio assai più modesto nel campo della creazione in immagini, il critico. Perché la bellezza di questo tipo di cinema è da cogliere istintivamente, e non razionalmente. Come da un fenomeno spontaneo, che si schiude davanti ai nostri occhi, per scomparire appena si cerchi di fissarlo con maggior determinazione. Pialat, che notoriamente non è uno dal carattere facile, sarebbe furioso all'idea di definire il suo cinema realistico - documentaristico, ricerca della verità in senso tecnico - estetico, oppure storico - sociologico. Eppure, perlomeno al momento zero del processo creativo, la cosa più semplice è quella di immaginare Pialat nelle vesti di un documentarista; uno che non vuol tanto raccontare una storia, creare una finzione, quanto ricercare la verità nella descrizione di un ambiente, E facile immaginarsi in questo caso il regista mentre si documenta sul mondo della polizia (forse semplicemente perché il "polar" è di moda: non solo Chabrol, anche Godard ne ha girato uno in quel periodo), mentre s'immerge letteralmente in un ambiente.

Probabilmente, anzi sicuramente perché ai produttori bisogna pur sempre mostrare qualcosa di "reale", Pialat ha anche una storia, una progressione drammatica che leghi certi personaggi. Ma da questa immersione in un ambiente, nel caso dell'autore di POLICE , viene istintivo di passare immediatamente al primo giorno delle riprese. A tutto quanto succede, nella nascita di un film, quando il regista inquadra l'attore ed inizia a filmarlo. Perché è da quest'istante, dal momento nel quale l'attore incomincia a vivere, che inizia un film di Pialat. Da quell'istante, cosa diventa Police, ad esempio? La descrizione di una serie d'interrogatori in polizia? In parte, ma non veramente. Quella del mondo dei piccoli traffici di droga. fra gli immigrati nord-africani in Francia? Più o meno. Una storia d'amore, una storia di solitudini, una storia di sesso? Soprattutto, una serie di momenti privilegiati. Di momenti di verità, d'intimità piuttosto, per tutto quanto di fisico c'è nella ricerca che compie la camera di Pialat, con i personaggi. Di un film come Police viene immediato dire che i poliziotti, i trafficanti, i vari personaggi sono di una "verità" straordinaria: tale da relegare fra i comportamenti manicheistici quelli di tutti gli altri film. Eppure lo spettatore, il sottoscritto perlomeno, conosce poco i poliziotti e ancor meno i trafficanti. Diciamo allora che la verità straordinaria è nell'incontro di Pialat con quei personaggi. Depardieu, Sophie Marceau, Anconina, la Bonnaire sono straordinari: ma lo sono - e senza toglier loro un filo di merito - perché l'approccio del regista nei loro confronti è di una forza (ancora una volta, fisica), di un introspezione irripetibile. Ogni gesto, anche la mimica infinitesimale, ogni inflessione della parola, della piega del dialogo diventa determinante, significativa. Ogni situazione è come vissuta dall'interno, e non semplicemente osservata o descritta. I tempi di questi momenti esistenziali si svolgono con una facilità incredibile. E gli attori esistono, vivono l'istante - e noi con loro - con una pienezza totale. È un cinema distante dal cinema-verità, la candid camera che coglie più o meno di nascosto i protagonisti. È un cinema, al contrario, d'intervento, d'intromissione del regista nei confronti dell'attore. E nemmeno d'improvvisazione, di libertà concessa all'attore, come nel caso di Cassavetes, di terminare la scena, ed i dialoghi a proprio piacimento.

I problemi, nel cinema di Pialat, nascono eventualmente quando si tratta di legare fra di loro questi momenti privilegiati. Quanto si tratta di creare una progressione drammatica, di raccontare la storia, di compiere all'interno di questa la definizione delle singole psicologie. Anche se Police è meglio strutturato del precedente A NOS AMOURS è chiaro che, visto a questo modo, il cinema di Pialat sia carente. Ma, appunto, fino a che punto è giusto vedere "a questo modo" uno dei suoi film? La vera progressione, il vero sviluppo dei significati nei suoi film si svolge probabilmente all'interno dei personaggi. Nel loro progressivo svelarsi (o celarsi, che è la stessa cosa). In quel viaggio all'interno di quei personaggi, e all'interno delle situazioni da loro vissute, che noi spettatori siamo forzati a compiere. Così, prendete la giovane, immatura, magari schernita Sophie Marceau: non solo è perfetta, nella sua ambiguità, nelle sue incertezze nel suo modo di essere. Ma dall'osservazione di Pialat (anche se la "storia" progredisce a singhiozzo, anche se i personaggi non vengono "spiegati") nasce un personaggio: quello della donna, magari solo ragazzina, fatale. Quello dell'affascinante bugiarda che incanta il protagonista. Quello, per intenderci, di tutto un cinema: quasi l'avevamo dimenticato Police è "anche" un poliziesco. Come LA BETE HUMAINE, come LE JOUR SE LEVE. E, come quelli, anche se a modo tutto suo, resterà per sempre nella memoria.


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